Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, il presidente del collegio sindacale di una società a responsabilità limitata aveva presentato ricorso per ottenere la sua dichiarazione di fallimento, dando peraltro esecuzione ad un preciso mandato ricevuto dall’assemblea dei soci della medesima società.
Avverso la sentenza dichiarativa di fallimento veniva, tuttavia, proposto reclamo. Il giudice del reclamo, invero, aveva assunto tra l’altro che i requisiti soggettivi di fallibilità della società emergevano dall’ultimo bilancio approvato dai soci (risalente al 2006), ove risultavano immobilizzazioni materiali superiori a 2,6 milioni di euro e, dunque, un attivo patrimoniale ben oltre la soglia minima fissata ex lege (pari a 0,3 milioni di euro), mentre non potevano essere utilizzati altri dati contabili, non essendo stati approvati i bilanci sociali negli esercizi successivi fino alla sua dichiarazione di fallimento avvenuta come detto nel 2015.
Uno dei reclamanti proponeva allora ricorso per Cassazione, esponendo, tra gli altri motivi, che la Corte d’Appello avrebbe errato nel ritenere provato il superamento di almeno una tra le soglie dimensionali (quella relativa all’attivo patrimoniale) necessarie per affermare la sussistenza del requisito di fallibilità dell’imprenditore, che era rimasto inattivo ben prima dell’ultimo triennio prima della dichiarazione di fallimento, né potendosi utilizzare un bilancio societario risalente a circa dieci anni prima e neppure prodotto in atti.
La Cassazione, dunque, all’esito del procedimento, con la pronuncia in oggetto, ha statuito che l’imprenditore se decide di proporre un ricorso teso ad ottenere il proprio fallimento, deve dimostrare di rientrare tra le imprese fallibili, dovendo dare prova della sussistenza di entrambi i presupposti, quello soggettivo e quello oggettivo, fissati in via generale dagli artt. 1, comma secondo e 5 l.fall.
In particolare, la Suprema Corte ha chiarito che ciò che distingue il ricorso per dichiarazione di fallimento da quello volto all’autofallimento è il criterio di riparto degli oneri probatori, che, in caso di autofallimento, si atteggiano diversamente rispetto all’ipotesi consueta di fallimento richiesto dal creditore.
E infatti, circa l’autofallimento l’art. 14 della Legge Fallimentare stabilisce che: “L’imprenditore che chiede il proprio fallimento deve depositare presso la cancelleria del tribunale le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti ovvero l’intera esistenza dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata”; inoltre, l’imprenditore deve depositare anche uno stato particolareggiato ed estimativo delle sue attività, l’elenco nominativo dei creditori e l’indicazione dei rispettivi crediti, l’indicazione dei ricavi lordi per ciascuno degli ultimi tre esercizi e l’elenco nominativo di coloro che vantano diritti reali e personali sulle cose in suo possesso, con l’indicazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto.
Orbene, nonostante il tenore letterale della disposizione, che parla di un obbligo di rendere determinate produzioni documentali, la Suprema Corte ha ritenuto che non trattasi di un vero e proprio obbligo giuridico, bensì di un mero onere: il mancato deposito della documentazione prevista può assumere rilievo, infatti, solo per concludere che non sia stata raggiunta la prova della sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, con conseguente rigetto del ricorso per autofallimento.
Ciò posto, partendo dall’ormai consolidato orientamento, a tenore del quale, nel caso di fallimento richiesto da un creditore, è sempre l’imprenditore fallendo ad essere onerato della prova circa la sussistenza dei requisiti per essere sottratto alla procedura concorsuale, allo stesso modo, nel caso di autofallimento, sarà parimenti onere dell’imprenditore dimostrare la sussistenza sia del proprio stato di insolvenza e del superamento di almeno uno tra i requisiti dimensionali normativamente previsti dall’art. 1, comma secondo, L.F.