Gli obblighi del datore di lavoro ex art. 2087 Cod. civ. e l’infortunio sul lavoro da contagio

Il presente commento ha ad oggetto, discostandosi dalla linea sino a ora seguita, una risalente sentenza della Suprema Corte di Cassazione e, precisamente, la n. 5002 del 1990, avente a oggetto una tematica – il rapporto tra gli obblighi ex art. 2087 Cod. civ. e la possibilità che il prestatore di lavoro contragga, nell’adempimento dei propri obblighi verso il datore, una malattia infettiva – che, in ragione della situazione contingente, tornerà indubbiamente a occupare le sezioni specializzate dei Tribunali nazionali.

Preliminarmente, e al fine di meglio comprendere il portato della pronuncia de qua, occorre richiamare il dettato dell’art. 2087 Cod. civ., il quale così dispone: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro», con ciò configurando in capo al datore una vera e propria “posizione di garanzia” verso il lavoratore.

Orbene. Secondo la Suprema Corte, che nel caso di specie si è occupata di una fattispecie peculiare – un lavoratore, recandosi “in occasione di lavoro” presso un Paese estero caratterizzato da fortissima presenza della zanzara anofele, vettore della malaria, contraeva tale ultima malattia – enunciando un principio a mente del quale gli obblighi in tema di tutela delle condizioni di lavoro non potranno riguardare, con esclusività, le attrezzature, i macchinari e servizi che siano stati forniti dal predetto datore. E infatti, ciò che costituisce l’elemento di indubbio interesse nella pronuncia in esame, la Suprema Corte ha ritenuto che i predetti obblighi si estendano, altresì, all’ambiente di lavoro, ove, secondo l’insegnamento costante della stessa giurisprudenza di legittimità, le misure e le cautele ex art. 2087 Cod. civ. dovranno essere adottate al duplice scopo di: 1) prevenire infortuni causalmente collegabili a rischi insiti nel predetto ambiente; 2) prevenire, ugualmente, infortuni che possano derivare da fattori esterni all’ambiente di lavoro ma, comunque, ricollegabili alla località in cui la prestazione lavorativa dovrà essere espletata.

Di conseguenza, in applicazione del principio innanzi ricordato, la Suprema Corte, passando a esaminare il profilo dell’onere della prova incombente sul datore chiamato a rispondere per violazione dell’art. 2087 Cod. civ., ha espressamente statuito come dovrà essere quest’ultimo soggetto a dover dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il contagio (misure che, peraltro, nel caso di specie, avrebbero altresì dovuto consistere nella fornitura del chinino, noto farmaco antimalarico).

È indubbio, in ragione, peraltro, delle stringenti norme di natura emergenziale emanate per fronteggiare la pandemia da Covid19 e, al contempo, assicurare la continuità aziendale in sicurezza, come l’unica possibilità per il datore di sottrarsi alla responsabilità ex art. 2087 Cod. civ. per avvenuto contagio da Covid19 “in occasione di lavoro” sarà quella di dimostrare la pedissequa adozione di tutte le misure allo stato della tecnica adottabili per prevenire (o, almeno, ridurre) il rischio di contagio.