Nel caso di specie la Suprema Corte era stata chiamata a decidere sull’impugnazione proposta da una S.r.l., dichiarata fallita, avverso il provvedimento con cui la Corte d’Appello di Milano aveva respinto il reclamo proposto dalla società nei confronti della sentenza di fallimento.
La società, in particolare, lamentava che la corte territoriale non avrebbe correttamente verificato la ricorrenza dello stato di insolvenza tenendo conto dello stato di liquidazione (di fatto) in cui versava la S.r.l.
Sosteneva, infatti, la società ricorrente che l’accertamento dell’insolvenza di una società in liquidazione dovrebbe essere diverso rispetto a quello di una società operativa, posto che in caso di liquidazione dovrebbero essere valutate soltanto le attività e non anche l’effettiva disponibilità di credito, di risorse liquide o di cespiti facilmente monetizzabili, che dovrebbero essere valorizzati solo per le società ancora operative.
A tale riguardo la società ricorrente aveva in particolare evidenziato che la decozione avrebbe dovuto escludersi in ragione del fatto che aveva completato l’edificazione di un immobile e avrebbe potuto fruire di un finanziamento bancario.
La Corte d’Appello, senza effettuare alcuna distinzione in ordine allo stato di liquidazione (sostanziale o formale) in cui versava la società poi fallita, aveva rilevato come il finanziamento della banca fosse ancora solo in fase istruttoria e come nel complesso non emergessero concrete possibilità di soddisfacimento dei creditori, non avendo la società un patrimonio attivo facilmente monetizzabile. Anche potendo quindi considerare la società in liquidazione, la stessa non dava prospettive certe di realizzo del proprio patrimonio in tempi ragionevoli per soddisfare i creditori: di qui la ritenuta dimostrazione dello stato di insolvenza della s.r.l.
Ciò premesso, è noto che la dichiarazione di fallimento trova il suo presupposto, dal punto di vista oggettivo, nello stato d’insolvenza del debitore, come disciplinato dall’art. 5 l.fall., il cui riscontro prescinde dall’indagine sull’effettiva esistenza dei crediti fatti valere nei confronti del debitore: è infatti sufficiente, a tal fine, l’accertamento di uno stato d’impotenza economico-patrimoniale, idoneo a privare tale soggetto della possibilità di far fronte con mezzi “normali” ai propri debiti.
Ai fini della dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza deve essere manifesto, ossia deve aver comportato ritardi nei pagamenti delle obbligazioni assunte, lasciando di fatto libero l’imprenditore di gestire in via autonoma eventuali problemi finanziari che, comunque, non si ripercuotono all’esterno dell’impresa stessa. Solo nel momento in cui l’insolvenza si manifesta all’esterno il legislatore considera pericolosa tale situazione, disponendo, quindi, che la società sia dichiarata fallita – al ricorrere degli altri presupposti di legge – o, diversamente, soggetta ad altre procedure concorsuali.
Perché sussista il requisito oggettivo, secondo il costante insegnamento della Suprema Corte, è sufficiente che l’imprenditore non sia in grado di adempiere regolarmente, tempestivamente e con mezzi normali alle proprie obbligazioni.
Ciò, tuttavia, non trova applicazione con riferimento alle società che si trovano in liquidazione – fase fisiologicamente destinata alla cessazione dell’attività ed al pagamento dei debiti – il cui stato di insolvenza va apprezzato considerando se i beni e le attività della società siano sufficienti al pagamento dei suoi debiti; da ciò discende che, in presenza di un ammontare di questi ultimi molto elevato, è comunque onere della società, al fine di dimostrare l’inesistenza dello stato di insolvenza, dare la prova della proprietà di beni o di attività o disponibilità finanziarie sufficienti per soddisfare i propri creditori.
Ne deriva, dunque, direttamente che quando la società è in liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell’applicazione dell’art. 5 l.fall., deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale e integrale soddisfacimento dei creditori sociali: ciò in quanto – non proponendosi l’impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori sociali, previa realizzazione delle attività sociali, ed alla distribuzione dell’eventuale residuo tra i soci – non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte.